La facciata è stata ricostruita nel XVII secolo e risente di influenze tardo rinascimentali e barocche.
Anche il campanile presenta testimonianze delle diverse epoche in cui fu costruito: la parte bassa, infatti, è di fattura normanna, mentre la sommità mostra segni del gusto secentesco.
L’interno, a pianta quasi quadrata, è suddiviso in tre navate da una serie di archi a sesto ribassato che poggiano su colonne cilindriche sormontate da capitelli d’ispirazione romantica, tutti diversi uno dall’altro. Il tetto in legno a capriate è stato restaurato di recente.
L’altare della navata sinistra, dedicato a San Filippo Diacono, presenta un bel cornicione di pietra dura finemente decorato con interessanti bassorilievi del XVII secolo. Un cancello in ferro battuto della stessa epoca protegge la cassa contenente le reliquie di San Filippo Diacono, di alcuni santi vissuti nel monastero di San Filippo e alcuni cimeli, anticamente molto venerati, che la fede popolare riteneva direttamente collegati alla Passione di Gesù, come, ad esempio, una pietra del Santo Sepolcro, un po’ di terra dell’orto di Getsèmani, un pezzo di legno della Santa Croce.
Nella cappella di destra si può ammirare una bella tela di un ignoto pittore siciliano del XVIII secolo raffigurante la Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina. Attorno quindici medaglioni raffigurano i misteri del rosario.
La chiesa conserva alcuni arredi sacri di grande valore storico e artistico. Tra essi meritano particolare rilievo la mitra e il pastorale appartenuti a Raniero di Messina, dal 1308 abate del monastero benedettino di Santa Maria Latina, che sorgeva nella parte bassa del paese. Essa custodisce anche un dipinto in legno, probabilmente l’unica tavola arrivata fino a noi di un antico polittico del secolo XV, in cui è raffigurato, come in quasi tutta l’iconografia che lo riguarda, San Filippo che calpesta il demonio, rappresentato da un drago incatenato.
Nel 1689 la chiesa fu elevata al rango di collegiata da monsignor Garaffa, vescovo di Catania, alla cui diocesi apparteneva allora la chiesa di Agira.
Nella parete di sinistra, in fondo alla chiesa, è stato ricostruito l’Aron della sinagoga di Agira. Poche, ma sicuramente importanti, sono le testimonianze della presenza di una comunità ebraica ad Agira nel medioevo. Spiccano tra esse una sinagoga, ormai in stato di abbandono, e un bellissimo Aron in pietra d’epoca aragonese, recentemente ricomposto nella chiesa collegiata Santissimo Salvatore.
A un centinaio di metri dalla collegiata vi sono i ruderi di un oratorio appartenuto alla confraternita di Santa Croce, ma noi sappiamo con certezza che fino al 31 Marzo 1492, giorno in cui Ferdinando il cattolico emanò l’editto di Granada col quale espulse gli Ebrei da tutti i territori ricadenti sotto la giurisdizione spagnola, quel luogo fu la sinagoga della comunità giudaica di Agira. Prima di tutto perché la sua planimetria senza ombra di dubbio ci conferma che si tratta di un luogo di culto ebraico; poi perché il meraviglioso reperto miracolosamente ritrovato intatto tra i ruderi, a lungo erroneamente considerato un portale, a un attento esame degli esperti si è rilevato per quello che veramente era: un Aron o arca santa, l’armadio cioè dove venivano conservate le scritture, la torah.
L’iscrizione dedicatoria ci consente di identificare con esattezza l’anno di costruzione. Vi si legge: “Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore” (Isaia 2,5). Poiché per risalire alla data dei momumenti ebraici dobbiamo fare riferimento al valore numerico delle ultime lettere del versetto biblico in essi riportato, nel nostro caso, secondo il computo degli anni del calendario ebraico, l’anno è il 5214 dalla creazione del mondo, corrispondente al 1454 del calendario gregoriano. Era l’epoca in cui re Alfonso d’Aragona, lo stemma del cui casato è riprodotto al centro del monumento, concesse agli Ebrei una certa libertà di culto dopo decenni di umilianti segregazioni e limitazioni.
Solitamente gli Aron venivano costruiti in legno; questo, invece, rarissima eccezione, è in pietra ed è una delle ragioni per cui è attualmente al centro di una grande attenzione di studiosi ed esperti. “Una vera rarità in tutta l’area mediterranea”, lo definisce il professor Titta Lojacono, presidente dell’Istituto Internazionale di Cultura Ebraica slm; “il più antico Aron d’Europa”, afferma su Kalòs, Arte in Sicilia (anno XIII, n. 2 Aprile-Giugno 2001), lo studioso Nicolò Bucaria, autore tra l’altro di Sicilia Judaica. Guida alle antichità giudaiche della Sicilia, Palermo 1996.
Agira, grazie all’ambizioso progetto di restaurare l’antica sinagoga, di riportare l’Aron nella sua sede naturale e creare un centro permanente di studi ebraici, si candida a diventare nei prossimi anni il luogo ideale da cui partire per ridisegnare in Sicilia la mappa di una presenza bruscamente cancellata e di una storia ingiustamente dimenticata.
(Ins. Salvatore Rocca)